La quarume come il vin brulé, la cucina come un salone da ballo, il cibo come linguaggio: a tavola parla Salvo Piparo, attore, cantautore, autore che non va a fare la spesa, pìcaro piccante e arguto.

Ancestrale, ecco come andrebbe definito il mio rapporto con il cibo. Il cibo non è mangiare il cibo è toccare, parlare, è tavola ed è cucina e per me, fratello di uno chef e nipote di due nonne che designavano le due facce sicule - orientale e occidentale - il cibo è pure questione di famiglia. Il cibo è storia, basta guardare la cassata siciliana, che arrivano gli Spagnoli e ci mettono il pan di Spagna, i Piemontesi e la colorano come la bandiera e gli Arabi ci mettono la ricotta ché, se ci pensi, se a uno gli piace la cassata non può essere razzista, ecco: chi ama il cibo buono e lo sa riconoscere non può essere razzista mai.

Io sono figlio di una cucina di sostanza, come si dice a Palermo: piatti che fanno sangu e latte da quando li pensi e li aspetti, a quando li vedi preparare fino al momento sublime in cui finalmente li assaggi, e lo senti che ti penetrano nelle carni e ti fanno bene. Prendi la pasta con i broccoli arriminati - che a me i broccoli non piacciono ma nella pasta, tu ti ci vuoi solo tuffare e scovare l’uvetta, il pinolo perché vedi a me il broccolo manco mi piace ma la pasta con i broccoli arriminata mi fa sangue, ecco: il cibo è trasformista ed è trasformazione.

Ma torniamo al rapporto familiare…

Ecco io il fratellino lo volevo, come un pazzo lo volevo e non vedevo l’ora che arrivasse e poi lui è arrivato. Tutto paffuto e bello e cocco di mamma ha riequilibrato tutto il mio rapporto con il cibo, in compenso ha sfasciato il mio ego sì perché, poi da grandi, io avevo fatto il teatro, avevo fatto Shakespeare, tradotto l’Iliade ma iddu a primo salappo mi finì alla prova del cuoco su Rai1, mandando in brodo di giuggiole mia madre e tutto il mio teatro nella soffitta più ammucciata del suo cuore, all’agnone proprio. E che dovevo fare, io, che davanti a lui non è che non voglio cucinare, ma è l’uovo che mi guarda e mi dice “io non mi cuocio. Io da te manco mi faccio toccare” e allora mi sono messo gioiosamente a fare il commis, l’aiutante e del resto, con mio fratello, spaghetti aglio e oglio è l’occasione migliore per sbracarci dalle risate, e quando la facciamo insieme diventa una cosa che prima tutti timidi e tutti “io no, io sono pieno non ne voglio” poi pure se metti due chili di pasta per tre finisce.
Perché il cibo è trasformista, trasformatore e trasformante.
Ciccio [il fratello] lui sì che è poeta, mio fratello ha traghettato tutto il sapere delle nonne e passando tra Catania e Palermo ci ha tirato fuori il Sushi in tempura. Io posso solo guardarlo cucinare e bearmi, la cucina per me ha la seduzione del tango: chi cucina danza, fa sinuoso lo spazio, lo rende sensuale.

- Cucina da guardare o cucina da mangiare?

Capiamoci, a me piace che ora sono tutti cuochi e mi piace quando ti mettono le cose buone bene nel piatto. Ma in Sicilia la cucina è stata bella sempre, decorata sempre - parlavamo prima della cassata - ma è ed è stata una cucina barocca anche nella percezione delle quantità. Da noi “bello” è sinonimo di “buono” e soprattutto di “tanto” anche riferito al corpo, per i più poveri, grasso non era chi mangiava troppo ma chi aveva la possibilità economica, chi si poteva permettere di mangiare molto, quindi grasso era pure bello e così i poveri erano Botero e ricchi, in realtà, un poco più allignati. Oggi che abbiamo una cultura diversa del cibo e del nutrimento cerchiamo di equilibrare ma io, per la verità vengo da una famiglia di Botero meravigliosi almeno per una parte, mia zia pesava 150 chili! E la mia è la storia di uno che in cucina ci è cresciuto, da noi lo sfincione si faceva in casa scegliendo una a una le sarde salate, e le feste erano odore di buccellati che si preparavano in casa in quantità mostruose, teglie di pasta al forno, festa di abbondanza bella grossa. 

Il piatto indimenticabile restano i carciofi con la tappa che faceva mia nonna. Questa cosa che solo il colore ti faceva morire di voglia, lei li cucinava con la salsa, ma il bello era che non sapevi cosa ci fosse dentro, quel tappo d’uovo poteva nascondere di tutto, una metafora della vita, come la frittola che tu mangi e ti fidi non ti chiedi cosa c’è, infili la mano e mangi. Street food, finger food c’è da impallidire, noi siamo cresciuti che si mangia quello che c’è ma qui il finger food sono i cazzilli e il trucco è che ti devi sporcare le mani, come in cucina, e te le devi bruciare se serve. Pensa alle patate bollite che ti vendono per strada: patrimonio dell'umanità le devono fare! E noi siamo una umanità che fa merenda con la quarume che qui è come il vin brulè alpino - pure quello lo trovi nei pentoloni agli angoli delle strade - serve per scaldarsi e non vuoi sapere per forza cosa contiene o come si fa, prendi e mangi. E in più cominci a spinnare prima ancora di sentire l’odore perché il cibo è desiderio

- Amore sacro o amor profano?

E come distingui? Te lo dicevo: io sono cresciuto tra due Sicilie, qui non c’è santo senza tavola, il festino di Santa Rosalia è babbaluci, anguria, cazzilli e panelle, i morti pasta di martorana, la Pasqua passione di cassate. Da noi il pane, se proprio sei costretto a buttarlo lo baci prima e non è un fatto religioso è proprio una forma di spiritualità viscerale legata al nutrimento, alla vita stessa. Da noi se vai a fare la spesa hai le tue marunnuzze che sono quei bottegai dove vai e sai che ti daranno il meglio, da noi se qualcuno ha un lutto e vai in visita, porti da mangiare perché il cibo è preghiera e consolazione. E poi c’è il profano perché il cibo è anche bugia e mistificazione, come le sarde a beccafico, un pesce povero che si finge pietanza ricca o il fegato di settecannoli. 

E cioè?

E cioè quella volta che la popolana cucinava quello che poteva, mentre la sua vicina abbiente ogni giorno aveva carne - coniglio, agnello, vitello. E quella mischina si umiliava quando l’altra le chiedeva “Che prepara, signora?” E doveva rispondere “Patate”, sicché un giorno, stanca e stufa, invece di rispondere alla domanda, esibì una favolosa padella con un succulento pezzo tutto rosso e ghiotto e morbido e rispose “fegato” trasudando orgoglio più della padella che pareva trasudare grasso (e bello). Ma in realtà trattavasi di zucca in agrodolce, da allora nota come Fegato di Settecannoli, ricetta sopraffina e bugiarda quanto quella della pasta con le sarde a mare. Perché vedi, magari la chiamiamo bugia ma in realtà la cucina è fantasia, creatività, poesia e comunicazione.

- La cucina è linguaggio?

Il nostro è un dialetto gastronomico, iconico, immaginifico. Gli invidiosi? Ci mancianu l’occhi. I ladri? Ci mancianu i manu. Un racconto amoroso? Me la sono ammuccata. Un approccio andato male? Patate. Una donna piacente e dall’aria sicura? Questa due fili se li mangia. Una donna che vorremmo conquistare? M’a manciassi. Esplosione di voluttà? Ti pigghiassi a muzzicuna. Uno magro? Siccu comu na sarda. Uno smorto? Mortu n’ta ll’ovo. Sordo che non vuol sentire? Avi u pitrusino n’taricchi.

Non è decisamente un caso se nelle intercettazioni di latitanti si sente parlare di “mattanza” o di “tempo di tonnina” per indicare le stragi, e nello stesso novero sta l'espressione “surra” - surra è la ventresca, la parte grassa che avvolge la cavità addominale la panza insomma ed ecco che surra in Siciliano è silenzio e che l’uomo d’onore è uomo di panza.

- Dai torniamo seri, parliamo di prevenzione a tavola…

Babbaluci. 

(?)

E aglio. 

(??)

E certo, e in effetti babbaluci con l’aglio perché guarda, tu mangia un piatto di babbaluci condite come si deve con una testa d’aglio, di quello nostrano che profuma (...) pure con la buccia figuriamoci cosa sprigiona quando lo sminuzzi, ecco, mangiane ma che dico un piatto, basta un boccone. E poi vedi se serve l’adesivo a terra per segnare il metro di distanza, vedi, vedi se non basta guardare a che distanza ti passano gli altri, che c’è migliore distanziatore dell’aglio? E a tavola, c’è tavolo grande abbastanza per preservare diciamo dal disturbo uditivo o dallo spruzzo bello unto di olio? 

Ecco fatto: distanza sociale, distanza di sicurezza, direi conservazione della specie

Che per converso il massimo della prova d’amore, il segno inequivocabile della comunione, dell’amore, della compatibilità e dell’armonia, è o non è quella persona che ci puoi mangiare insieme babbaluci e baciarla lo stesso e magari pure toccarla così, con le dita tutte unte e odorose ecco la prova d’amore.

- Ah, ma come: il vino buono? La cucina gourmet? 

Anche nel bicchiere ora siamo tutti più colti, io per esempio trovo che la grappa di champagne [Marc de Champagne] sia sempre LA soluzione.

- E caffè e sambuca? 

Ah quello è un tunnel della memoria. Mai come il Nikka, Nikka e sigaro e ti fanno la conversazione. Io non sono (più) un bevitore ma alcune cose sono rituali, servono alla vita e servono alla scena: il cicchetto di rum dietro le quinte è come il vino all’altare, preghiera, rito propiziatorio, celebrazione.

- Chi più spende? 

Meno spande! Il cibo buono può anche costare di più ma rende anche di più quindi alla fine probabilmente risparmi e sicuramente mangi meglio. L’importante è scegliere e ormai puoi scegliere con molta più facilità. Poi come ti ho detto io non sono uomo di casa, amavo fare la spesa al mercato, Ballarò con mia nonna è stata una grande scuola e ci tornerei ancora volentieri anche se di s’ti tempi è difficile e non vado quasi più, meglio condizioni protette.

Oppure usi l’aglio!

Ridiamo molto, siamo d’accordo su un uso attento dell’ironia come tecnica di sopravvivenza e personalmente per il distanziamento sociale uso il cinismo ma intanto è tardi, a malapena il tempo dell’ultima domanda:

- Ingrediente preferito?

Ma lo sai come mi chiamo io?

- Salvo Piparo?

Pìparo, pipareddu “péperi” o “piperi”, pĭpĕr-pĭpĕris: peperoncino!